venerdì 11 ottobre 2013

Del Nobel, dei giudici di San Pietroburgo, delle letture sull'autobus e dello sciroppo d'acero

Alice Munro ha vinto il Nobel 2013 per la letteratura. A un giorno di distanza dall'evento ormai questa cosa dovrebbero saperla anche i sassi. Molto più difficile per buona parte del pubblico sapere cosa accidenti abbia scritto questa signora canadese, che pure non è esattamente l'ultima arrivata se ha battuto la concorrenza di nomi come quello di Philip Roth.
Lasciamo però un attimo da parte le considerazioni sui gusti e le conoscenze del pubblico letterario italiano, perché si tratta a dir poco di un campo minato. La letteratura moderna è una foresta in cui non è facile orientarsi, dove anche la migliore delle volontà rischia di rimanere sommersa da un'ondata di proposte che - spesso - non soddisfano le aspettative e fanno solo perdere tempo (oltre alla voglia di sperimentare autori o generi nuovi). Io stesso, lo devo confessare, prima di stamattina della Munro non avevo letto proprio un bel null. Certo, l'avevo messa in "tempi non sospetti" nella mia lista di lettura di aNobii pur se non nei primi posti... ma questo significa che senza il Nobel l'avrei presa in mano probabilmente intorno al 2020.
Non voglio poi nemmeno accennare alla questione dell'attendibilità di un tale premio (sì, io sono uno di quelli che ritiene che Ungaretti se lo meritava tutto, mentre Dario Fo... ecco... passiamo oltre, dai...). Forse questa scarsa fiducia nei riconoscimenti letterari è solo una mia fissazione. ma il fatto è che l'esistenza di strategie e vincoli editoriali nell'assegnazione di determinati premi è cosa ben nota, e non solo agli addetti ai lavori. Per i premi di un tale prestigio come il Nobel, poi, il numero delle variabili esterne ad un sereno giudizio artistico cresce in maniera esponenziale: entrano in ballo antiche ripicche tra istituti di cultura, calcoli pluriennali per favorire questo o quell'autore, in alcuni casi perfino considerazioni di carattere politico... e così finisce che ti chiedi se il premio dato allo sconosciutissimo scrittore di uno sconosciutissimo Paese-del-Terzo-Mondo-a-caso sia stato assegnato per il suo effettivo valore, perché faceva figo e alternativo premiarlo un po' come succede in certe mostre del cinema, oppure se più banalmente lo hanno dato a lui per non scontentare nessun altro.

Quando penso al Nobel mi viene in mente quell'immortale scambio nel Cyrano de Bergerac, all'inizio, nel teatro:
(IL GIOVINETTO, al padre.) Non si vede l'Accademia?
(IL BORGHESE) Ma c'è più d'un suo membro, sì. Ecco Boudu, Arbaud, Bourzeys, Colomby, c'è Cureau della Camera, con Porchères, Boissat, e Bourdon... Tutti nomi di cui non un morrà!... 
 
Dissertare di tutto ciò sarebbe ancor più stucchevole di quanto non sembri già solo a citarlo.
Quello che mi importa è stata la prima frase scritta dalla Munro in reazione alla notizia (quando sono finalmente riusciti a raggiungerla...), il che di tutta la faccenda rappresenta forse l'effetto più interessante e più di lungo termine per il mondo letterario:
"I would really hope this would make people see the short story as an important art, not just something you played around with until you got a novel."
Il che, tradotto in parole semplici, suona più o meno come: spererei che tutti la piantassero di considerare il racconto come un simpatico diversivo con cui ci si balocca mentre si lavora più seriamente ad un romanzo.
Ecco, il racconto. Che non è una robetta, un giocattolo carino per l'appunto, ma una forma narrativa a sé stante, così potente da configurarsi quasi come un genere a parte (il che è esattamente ciò che è successo in ambito fantascientifico "alto"). E se la Munro nel racconto ci si è specializzata, altri prima di lei nei modi più diversi possibile e con gli stili più diversi possibile e con i contenuti più diversi possibile hanno sfruttato a pieno quelle che sono i veri punti di forza della "storia breve". Che per paradosso coincidono con i suoi stessi limiti: necessità di una sintesi estrema, brevità dello scritto, obbligo di tenere alto il ritmo, iperdettaglio dei più piccoli particolari.
Insomma, tutto in un racconto è "più". Più veloce, più significativo, più esasperato. Lo deve essere, altrimenti l'effetto si perde e il lettore scopre il grande inganno che è alla base di tutto il gioco: ossia che la storia di un racconto deve essere al tempo stesso semplice e anche solida. Non si può barare, o la storia tiene oppure no, e il lettore lo scopre subito perché non puoi infinocchiarlo con una ventina di pagine spese per descrivere la fioritura dei noccioli o la rugiada che si forma sulle foglie d'erba al mattino. I personaggi devono muoversi, agire, parlare, vivere. Gli eventi devono accadere, formando una vicenda coerente e coesa.

Un orologio svizzero. Una delle analogie più usate (e abusate) per descrivere cosa deve essere un racconto. In confronto un romanzo è una roba tipo il Big Ben. Che devi essere preciso lo stesso, eh, ma qualche margine di tolleranza in più ce l'hai...
Certo, a questo punto uno potrebbe anche innamorarsi del racconto. Considerarlo a prescindere migliore, magari inventarsi la panzana che si tratta di una forma di narrazione più veloce, più essenziale, più smart, più in linea con la società di oggi (yuck!). Sovrane stupidaggini, perché il racconto non ha vantaggi intrinsechi se non il fatto che è più adatto ai ritmi di lettura odierni, fatti di quelle mezzorette che uno si ritaglia sull'autobus mentre va al lavoro o subito prima di crollare addormentato se non vuole rimbambirsi davanti alla televisione.
Tutto il contrario. Tanto per dirne una, il racconto, per la sua brevità, corre sempre il rischio di una progressiva sclerotizzazione narrativa in schemi prefissati: introduzione, eventi, complicazione, sorpresa finale. Ma di nuovo, dipende tutto da come lo strumento "racconto" viene utilizzato e ci possiamo trovare di fronte ad un Tolstoj che gioca con tutto ciò e ci regala con il suo magnifico Ivan Ilic un racconto in cui la sorpresa ad effetto sta all'inizio (spoiler: il giudice di San Pietroburgo muore... tipo a pagina due) o altri che la sorpresa proprio non ce la mettono e ti inchiodano al libro con ciò che succede durante un racconto che si configura come una progressiva discesa emotiva (ah, Buzzati e Bradbury, grandi volponi...).

Zio Ray. Bradbury, intendo. Volete sapere come si scrive un racconto? Leggete le sue raccolte. Vi piace la fantascienza? Se non le avete lette state mentendo sui vostri gusti solo per far colpo su qualcuno. Non vi importa un accidenti di come si scrive un racconto e la fantascienza vi fa venire l'orticaria? Leggetele lo stesso, che vi farà solo che bene.

Dunque, il racconto è bello? Può esserlo.
Il racconto è difficile da scrivere? Eh, certo.
Il racconto vende? Forse dopo questo Nobel lo farà di più e meno autori si vedranno rispondere dall'editore di fronte alla proposta di una loro raccolta di racconti: "Abbia pazienza, dottor Ammaniti, il momento è delicato..." (che poi è diventato il titolo di una raccolta STREPITOSA che vi consiglio senza alcuna esitazione).
Il racconto è meglio del romanzo? Alle volte, ma è più facile che faccia cilecca e devi essere davvero bravo per farlo funzionare.
Nei prossimi giorni scoprirò se la Munro è così brava e se questo Nobel se lo è meritato davvero.

PS: Che poi, per una cosa il Canada si meriterebbe il Nobel a prescindere: lo sciroppo d'acero. Sì, forse lo avrete provato sui French toasts o sui pancakes. Ma aspettate di assaggiarlo sul parmigiano e su altri formaggi duri e poi mi saprete dire...

giovedì 3 ottobre 2013

Tom Clancy

Ieri è morto Tom Clancy. E lo ha fatto, con singolare ironia del destino, all'inizio di quel mese di Ottobre legato ad uno dei suoi romanzi più fortunati, forse il migliore.
La notizia mi ha rattristato particolarmente, perché diversi anni fa ho avuto la fortuna di tradurre per Mondadori alcune sue opere di saggistica dedicati all'analisi di alcune unità di élite delle forze armate USA, come i reggimenti di cavalleria corazzata, le truppe paracadutiste o il personale imbarcato sulle portaerei. Da persona che quindi ben conosce il suo modo di scrivere, devo concedere che non era propriamente il massimo dell'eleganza stilistica e che in alcuni punti la sua passione esasperata per il dato tecnico rendeva piuttosto pesante la lettura. 

Marko Ramius. Vi voglio ricordare che se questo mito dei nostri tempi esiste lo dobbiamo solo a Tom Clancy. Serve altro?

Ma se ogni tanto si perdeva nei dettagli, in una cosa Clancy era inarrivabile: la descrizione dell'atmosfera dell'azione militare. Il vecchio Tom ti prendeva e ti catapultava nel bel mezzo di un quartier generale, di una sala comando, di un carro armato o di un incrociatore lanciamissili e ti lasciava lì, a scrutare nervosamente il tuo monitor per scorgere una qualche traccia del nemico, a sentire sulla tua pelle la tensione e la paura, a chiederti se saresti mai riuscito a tornare a casa.
Lessi Red Storm Rising quando ero ragazzo e la Guerra Fredda era ormai finita da un pezzo ma ancora adesso, dopo vent'anni, quelle sensazioni le sento nelle ossa. In un certo senso, sono entrate a far parte del mio modo di scrivere di cose militari, mi hanno spinto a chiedermi cosa prova un uomo che si trovi a dover uccidere per non essere ucciso. O, più semplicemente, di un uomo che cerchi solo di salvarsi la pelle mentre gente invisibile che non ha mai conosciuto gli lancia contro di tutto, dai semplici proiettili di un fucile automatico fino a missili intercontinentali del valore di svariati milioni di dollari.
Perché era così bravo? Semplice, Clancy era un paladino della regola del "mostrare, non raccontare", non limitandosi ad applicarla solo allo stile ma estendendola anche alla struttura stessa del racconto. Considerava a tal punto importanti l'azione e il momento presente della descrizione da rendere tutto il resto della narrazione funzionale ad essi. L'intreccio politico diveniva dunque parte dell'azione, ne delimitava i confini e la natura, forniva le giustificazioni ai protagonisti. Ma lì si fermava perché - ed è vero - ad un soldato non gliene importa un accidenti di politica, ideologia o religione. Un soldato spera che il proprio fucile non si inceppi, che da dietro quella nuvola non sbuchino due caccia nemici non individuati, che oltre l'orizzonte e sotto la superficie del mare non ci siano navi con centinaia di uomini che vogliono mandarlo a fondo con i pesci.
Clancy aveva capito - e proprio quando si manteneva fedele a tale convinzione riusciva a scrivere i suoi pezzi migliori - che il lettore non riesce ad immedesimarsi davvero nei generali, ma nella paura di chi combatte davvero. Così, quella paura - semplice e terribile al tempo stesso - diventa il tramite emotivo su cui si regge la lettura e che fa scaturire l'interesse, l'aggancio che ti impedisce di mollare il libro perché devi finire a tutti i costi quell'ultimo capitolo. E non puoi fare altrimenti, perché grazie a questo transfert psicologico, cominci a pensare che il destino dei personaggi sia indissolubilmente intrecciato al tuo.
Un'ultima parola, dedicata a coloro che affibbiano a Clancy l'ingombrante e un po' ipocrita di "cultura popolare". Leggete (non siete troppo snob) l'arcinoto L'eleganza del riccio di Barbery e soprattutto il suo giudizio sul film tratto proprio dal romanzo di Clancy.
Chi vuol capire l'arte del racconto non ha che da vederlo. Mi domando perché l'università si ostini ad insegnare i principi narrativi, a colpi di Propp, Greimas e altre torture simili, invece di investire in una sala di proiezione. Premesse, intrigo, attanti, peripezie, quete, eroe e altri adiuvanti: molto meglio uno Sean Connery in uniforme da sommergibilista russo e qualche portaerei ben piazzata. 
Perché sì, ci sono momenti in cui il posizionamento di una portaerei è altrettanto se non anche più importante di dieci pagine di inutili introspezioni psicologiche di tizi che si pongono domande sul senso della vita nel bel mezzo di una battaglia. Tolstoj e il suo principe Volkonskij sarebbero stati certamente d'accordo. 

martedì 1 ottobre 2013

Nuovo racconto: L'occhio del fotografo

E rieccomi! 
C'è voluto un po', lo ammetto, ma sono tornato e in grande stile, ossia con un nuovo racconto che trovate qui.
Cosa sto facendo in questi giorni? Vado avanti, come sempre. Fotografo e pubblico su Instagram, come e quando mi va. Scrivo, e neanche poco... ma mai abbastanza!

PS: E spero di poter tornare ad occuparmi con maggiore regolarità di questo blog... e questa è una mezza promessa!

martedì 30 luglio 2013

William Klein

Avete presente i maestri? Ma sì, quelle persone - anche un po' odiose - di cui sentite sempre parlare, di cui ammirate le opere alle mostre, di cui trovate i documentari su YouTube. Ecco, William Klein è uno di quelli.
Solo che è un maestro un po' strano. Non per quello che è, intendiamoci... Il suo famoso caratteraccio, la sua vita sregolata e avventurosa, la sua voglia di rompere tutti gli schemi fanno parte dello stereotipo classico dell'artista geniale e un po' matto. Fin qui nulla di nuovo.
Il suo essere strano risiede invece nella sua continua e insolubile contraddizione interna. Voglio dire, si tratta chiaramente di un uomo che di vite ne ha vissute troppe per non farci sospettare che in realtà nemmeno lui ha mai capito cosa voglia veramente fare della sua esistenza. Fotografo di moda, poi fotografo di strada, poi regista, poi documentarista... E il caro vecchietto non è stato inquieto solo nelle sue occupazioni, ma anche in quello che ha detto, fotografato e filmato.
E' un newyorkese ebreo come solo un ebreo può essere newyorkese, eppure vive a Parigi e New York la tollera soltanto (quanto lo capisco...). E' andato appresso a gente un filino problematica come Muhammad Alì, Malcom X e il leader delle Pantere Nere. Quando ha fatto fotografia di moda per Vogue le modelle lo temevano come la peste, perché questo pazzo le fotografava in mezzo alla strada, appese ai tram, che correvano sulle strisce pedonali rischiando di essere investite, penzoloni dai cornicioni delle case... Ah, e se ve lo state chiedendo, ogni volta che vedete una foto su di una rivista fashion non in studio ma ambientata in una zona urbana, sappiate che è stato proprio lui a inventare questo modo di scattare.
Quando ha fatto street photography - diciamola meglio, quando ha contribuito a definire cosa fosse la street photography - è andato come forza espressiva sicuramente al di là degli artifici carini carini di Doisneau e perfino più oltre rispetto alla spontanea perfezione molto ragionata di Cartier-Bresson. I suoi scatti sono un pugno in un occhio, quasi sgradevoli, aggressivi. Come il suo film Who are you, Polly Maggoo?, feroce satira del mondo della moda che al confronto Il Diavolo veste Prada è un film delal Disney (e infatti gli costò il posto a Vogue). Poi ce lo ritroviamo a filmare le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, per l'appunto appresso alle Pantere Nere nel loro esilio algerino, a filmare Muhammad Alì che tira di boxe con i Beatles (non scherzo, è successo davvero)... Insomma, cose normalissime, no?
Diciamocela tutta, era un figo. Ma è anche sempre e comunque rimasto un americano nel midollo, anche quando era molto difficile essere un americano. Uno di quelli veri, quegli ex inglesi-tedeschi-francesi che si liberano dal perbenismo tutto europeo, sguazzano in quella dannata ironia ebraica che ti fa ridere anche mentre stai salendo le scale della ghigliottina e si mettono a romperti le scatole, perché pensano di sapere tutto loro e di aver capito cosa è giusto e cosa è sbagliato. Alle volte prendono delle cantonate colossali ma alle volte, e questo è il loro aspetto più irritante, hanno ragione loro. Anche e soprattutto quando se la prendono con gli altri americani, con quella New York del big sell, la città del dollaro in cui tutti vengono per fare soldi e poi buttarli via il più rapidamente possibile, in cui il melting pot si rivela essere una scempiaggine colossale e solo una normale solidarietà umana può avere un qualche significato, in cui lo chic - sia esso moda o ristorantini fighi o viaggi cool - non è altro che una bella trappola colorata per le anime distratte.
Bene, Klein queste cose non te le dice, non te le argomenta, non te le espone. Te le urla in faccia e poi se ne va. Così com'era arrivato. Poi, quello che ci fai tu con la verità sono fatti tuoi.
Per chi volesse saperne di più, ecco il documentario realizzato dalla BBC. Godetevelo.

lunedì 29 luglio 2013

Vecchie, profonde radici

Non è vero che tutta la TV fa schifo. Qua e là riesci anche a trovare dei bei programmi. Qua e là riesci anche a trovare delle belle reti.
Certo, è roba per pochi. Roba che ti chiedi sempre per quanto rimarrà in onda, nonostante la moltiplicazione dei canali con il digitale terrestre. Eppure c'è, e fintanto che c'è, te la guardi e ringrazi. Quindi si può saltellare con fiducia su canali come Rai 4, Rai 5, Sky Arte o La Effe. Perché male che ti vada trovi una cosa che hai già visto o al massimo un po' banale, ma mai stupida.
Bene che ti vada...
Sabato scorso. Pomeriggio. Mi ritrovo davanti il più classico documentario on the road: America tra le righe - California dreaming. Con un giornalista francese, Busnel, che se ne va a spasso per gli USA a scovare artisti e scrittori e a parlare, per l'appunto di quel gigante così conosciuto e al tempo stesso così sconosciuto che sono gli States.
Grande, bello, stimolante, figo. Poi arriva uno scrittore indiano (nel senso di pellerossa, nel senso di nativo, nel senso di "quelli con le piume, l'arco e le frecce"), Sherman Alexie. Non ho mai letto nulla scritto di lui, lo confesso, e (nonostante apprezzi la fine ironia di chiamarlo con il nome di uno dei generali americani con più indiani sulla coscienza) non so se mai leggerò qualcosa scritto da lui. Ma ad un certo punto dell'intervista, se ne esce con un concetto notevole.
Il succo è: "I miei cari fratelli ce l'hanno con me, perché sono uno scrittore famoso e quindi un personaggio pubblico che non segue più le ancestrali tradizioni delle tribù. Me ne vado in giro come un uomo bianco, parlo delle città degli uomini bianchi, sono molto meno indiano di loro. A me queste critiche fanno male, le sento su di me. Tuttavia, un giorno ho avuto un'illuminazione. Mentre ci sono delle tribù che si lasciano distruggere culturalmente o che si mettono a gestire casinò nei territori, io giro il mondo raccontando storie. Come i nostri antenati, con la tradizione orale e tutto il resto. Ora, non è che sono io col mio lavoro ad essere rimasto più vicino alle nostre radici? Non è che sono io a tenere vivo un pezzo del nostro modo di vivere, mentre sono loro a tradirlo?"
Roba forte. Perché ti fa capire due cose: primo, che è dannatamente difficile liberarsi delle proprie radici, ti tornano fuori nelle maniere più strane; secondo, che ci sono mille e mille modi di vivere ciò che si è realmente, molti di più di quelli che la nostra arrogante intelligenza ci permette di scorgere.
Non è che questo frenetico ricercare noi stessi a cui ci richiamano libri, film, programmi televisivi, canzoni, poesie, scritte sui muri, citazioni strambe che ti compaiono su Facebook e quant'altro, non è che questa continua pulsione all'andare oltre ci impone la distruzione di ciò che siamo davvero, e peggio ancora di quello che potremmo essere seguendo le orme di chi ci ha preceduto?
Perché si può preservare la propria tradizione personale, familiare, culturale, nazionale anche facendo qualcosa di totalmente diverso e "moderno", ma si può anche perdere sé stessi se ci si lancia a capofitto nell'opera di distruzione del mondo da cui proveniamo o in una sua stantia conservazione.
E se dobbiamo condannare e rinnegare le tentazioni della nostalgia, non è forse salutare andare alla ricerca di una nostalgia attiva, ossia di un modo di interpretare le nostre esistenze senza dimenticare quale sia il mondo da cui veniamo? Perché arriva sempre quel momento in cui scopri che il gattopardiano "cambiare tutto perché nulla cambi", forse non era una cosa poi tanto brutta.

 

sabato 20 luglio 2013

Nuovo racconto: Colui che porta la luce

Sono vivo, eh! E ho anche scritto. Mica poco, un bel po' e anche di cose che... beh, poi vi dirò! Nel frattempo, ecco un nuovo racconto ambientato nell'universo di Radiant, la mia creatura-progetto fantascientifica che penso stia venendo abbastanza bene.
In questa nuova storia fornirò finalmente qualche notizia sul background generale, proiettandovi nella mente di un soldato alla vigilia di una delle battaglie più importanti dell'intero conflitto. Ma per lui, per quel che lo riguarda, non è altro che uno dei momenti più importanti della propria esistenza, il punto di arrivo a cui lo hanno condotto le importanti e dolorose scelte della propria vita.
Buona lettura!

venerdì 5 luglio 2013

Il lato oscuro del Laghetto


Io vivo a Roma. Sono nato dalle parti di Roma Nord (non è colpa mia). Però già a cinque anni ci siamo trasferiti nei pressi dell'EUR e da allora non l'ho più lasciato.
Per chi non è di Roma tutto questo può non significare molto., ma chi conosce bene la capitale sa quanto essa più che una singola metropoli sia un insieme di piccole città. Piccole città molto diverse tra di loro e che spesso, semplicemente, non si possono vedere. Troppe differenze di ambiente, classe sociale, urbanistica, abitudini di zona... eppure tutti i quartieri di Roma hanno una cosa in comune: detestano l'EUR.
Ora, lasciamo perdere le polemiche sulle sue origini. Fascismo o meno, i vialoni bianchi dell'EUR sono un esempio di architettura cittadina che in molti nel mondo hanno ammirato, studiato e banalmente copiato. E a me non sembra affatto triste o desolante come in molti lo descrivono, ma aperto e solare e pieno di verde e di aria. Personalmente vengo ancora preso da una leggera sensazione di claustrofobia non appena mi avventuro al di là della Piramide o quando lascio la Cristoforo Colombo passando sotto le mura: non c'è niente da fare, è proprio un'altra città.
Ora, per tutti coloro che abitano all'EUR esiste un luogo in particolare che conserva memorie preziose di giornate diverse dal normale, giornate romantiche. Il Laghetto.
Questa specie di enorme vasca da bagno situata davanti al palazzone dell'ENI è uno dei simboli del quartiere ed ha fatto da ambientazione per pomeriggi e nottate all'insegna dei sentimenti. Ben pochi sono gli abitanti dell'EUR che non ci si sono mai recati almeno una volta con la propria ragazza, fidanzata e moglie.
Eppure, oltre a custodire una preziosa famiglia di ciliegi giapponesi che ad ogni primavera regalano una rigogliosa fioritura, il Laghetto nasconde anche dei segreti. Come il fatto di essere suddiviso in due zone specifiche sul lato che dà su Viale America.
Se infatti nell'area immediatamente limitrofa alla metro di EUR Palasport (e chiamatelo come volete, ma per tutti noi dell'EUR quello è e rimane il Palazzetto dello Sport) troviamo la zona per le coppie regolari, spesso accompagnate da bambini e parentame vario, poco più in giù, verso la riva corta del lago che porta sull'altra sponda, si trova un'area un po' più appartata, con meno panchine e con maggiori garanzie di riservatezza.
Il lato oscuro del Laghetto. L'area dedicata alle coppie "non ufficiali".
In effetti, non so quando è cominciato tutto questo, ma nel corso degli anni si è formato una sorta di accordo implicito che spinge coloro che si amano non proprio come tutti a prediligere quel punto lì. Coppie di mariti con seconde mogli (le riconosci per la quasi immancabile differenza di età tra lui e lei), colleghi di lavoro chiaramente dediti a parlare di tutto tranne che del lavoro medesimo con fedi di colore diverso alle dita (che poi vedersi al Laghetto non è proprio il massimo della furbizia... all'EUR ci si conosce quasi tutti e le voci fanno presto a correre...), uomini e donne che arrivano singolarmente dando delle sospettosissime occhiate in giro finché non incontrano "casualmente" proprio chi speravano di trovare...
E non è che siano tutti presi da chissà quale vortice di passioni. Anzi, molti rimangono come schiacciati dal peso di una relazione clandestina o comunque "nata strana". E allora vedi uomini che si ritrovano alle prese con le stesse incomunicabilità che avevano con le precedenti consorti, questa volta aggravate dal fatto che le hanno con quella che probabilmente era la loro ex amante che un tempo li faceva sentire così "vivi", o anche gente dedita a vere e proprie litigate, rese ancor più dolorose dal fatto che si tratta di una seconda occasione che sta sfuggendo via dalle mani proprio come fu per la prima. Oppure i casi più pietosi, cioè coloro che fingono disperatamente e soprattutto con se stessi di essere di nuovo felici, perché hanno smontato il loro mondo per vivere quel momento... e poi si accorgono che forse non ne valeva nemmeno così tanto la pena.
Però ci sono le eccezioni.
Le persone felici, ma felici davvero. Perché nessun amore può essere così bello come quello che ha superato mille ostacoli, che ha ignorato anche i vincoli della cultura e della mentalità comuni, che ha travolto ogni convenzione. E tu, che cominci a far caso più alle persone che alle cose perché magari hai la vaga intenzione di diventare uno scrittore e quindi sai che prima di tutto devi imparare ad "ascoltare" ciò che ti vedi intorno, sei come sommerso da tutti questi stimoli. Riconosci i segni, le sottigliezze negli atteggiamenti, le posizioni sulle panchine, la natura degli abbracci, gli scambi affettuosi...

- Oh, amò! Ma guarda che bello... finalmente...
- Eccerto... Daje!
- Sì, sì, amò... guarda, pure coi regazzini che giocheno qui davanti a noi!
- E' vero. Ma quanto sei zenzibbile tu... Così, alla luce der sole...

Scena reale. Giuro, Verdone non c'entra. Uomo e donna. Capello lungo impomatato e improponibile catenone al collo con giacchetta bianca stile John Travolta de Torpigna lui, minigonna e zepponi lei (il resto della "signora" non lo ricordo... ho un buco nella memoria, vaghe immagini di capelli nerissimi e gioiellame esagerato... una parte dei miei neuroni deve essersi suicidata alla vista di questo spettacolo). Lui chiaramente uscito da poco da una separazione o divorzio o chessò io, lei tutta trionfante e acchittata per la loro prima uscita... alla luce der sole...
Ecco. Pure questo è amore.
Daje.