lunedì 29 luglio 2013

Vecchie, profonde radici

Non è vero che tutta la TV fa schifo. Qua e là riesci anche a trovare dei bei programmi. Qua e là riesci anche a trovare delle belle reti.
Certo, è roba per pochi. Roba che ti chiedi sempre per quanto rimarrà in onda, nonostante la moltiplicazione dei canali con il digitale terrestre. Eppure c'è, e fintanto che c'è, te la guardi e ringrazi. Quindi si può saltellare con fiducia su canali come Rai 4, Rai 5, Sky Arte o La Effe. Perché male che ti vada trovi una cosa che hai già visto o al massimo un po' banale, ma mai stupida.
Bene che ti vada...
Sabato scorso. Pomeriggio. Mi ritrovo davanti il più classico documentario on the road: America tra le righe - California dreaming. Con un giornalista francese, Busnel, che se ne va a spasso per gli USA a scovare artisti e scrittori e a parlare, per l'appunto di quel gigante così conosciuto e al tempo stesso così sconosciuto che sono gli States.
Grande, bello, stimolante, figo. Poi arriva uno scrittore indiano (nel senso di pellerossa, nel senso di nativo, nel senso di "quelli con le piume, l'arco e le frecce"), Sherman Alexie. Non ho mai letto nulla scritto di lui, lo confesso, e (nonostante apprezzi la fine ironia di chiamarlo con il nome di uno dei generali americani con più indiani sulla coscienza) non so se mai leggerò qualcosa scritto da lui. Ma ad un certo punto dell'intervista, se ne esce con un concetto notevole.
Il succo è: "I miei cari fratelli ce l'hanno con me, perché sono uno scrittore famoso e quindi un personaggio pubblico che non segue più le ancestrali tradizioni delle tribù. Me ne vado in giro come un uomo bianco, parlo delle città degli uomini bianchi, sono molto meno indiano di loro. A me queste critiche fanno male, le sento su di me. Tuttavia, un giorno ho avuto un'illuminazione. Mentre ci sono delle tribù che si lasciano distruggere culturalmente o che si mettono a gestire casinò nei territori, io giro il mondo raccontando storie. Come i nostri antenati, con la tradizione orale e tutto il resto. Ora, non è che sono io col mio lavoro ad essere rimasto più vicino alle nostre radici? Non è che sono io a tenere vivo un pezzo del nostro modo di vivere, mentre sono loro a tradirlo?"
Roba forte. Perché ti fa capire due cose: primo, che è dannatamente difficile liberarsi delle proprie radici, ti tornano fuori nelle maniere più strane; secondo, che ci sono mille e mille modi di vivere ciò che si è realmente, molti di più di quelli che la nostra arrogante intelligenza ci permette di scorgere.
Non è che questo frenetico ricercare noi stessi a cui ci richiamano libri, film, programmi televisivi, canzoni, poesie, scritte sui muri, citazioni strambe che ti compaiono su Facebook e quant'altro, non è che questa continua pulsione all'andare oltre ci impone la distruzione di ciò che siamo davvero, e peggio ancora di quello che potremmo essere seguendo le orme di chi ci ha preceduto?
Perché si può preservare la propria tradizione personale, familiare, culturale, nazionale anche facendo qualcosa di totalmente diverso e "moderno", ma si può anche perdere sé stessi se ci si lancia a capofitto nell'opera di distruzione del mondo da cui proveniamo o in una sua stantia conservazione.
E se dobbiamo condannare e rinnegare le tentazioni della nostalgia, non è forse salutare andare alla ricerca di una nostalgia attiva, ossia di un modo di interpretare le nostre esistenze senza dimenticare quale sia il mondo da cui veniamo? Perché arriva sempre quel momento in cui scopri che il gattopardiano "cambiare tutto perché nulla cambi", forse non era una cosa poi tanto brutta.

 

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