giovedì 3 ottobre 2013

Tom Clancy

Ieri è morto Tom Clancy. E lo ha fatto, con singolare ironia del destino, all'inizio di quel mese di Ottobre legato ad uno dei suoi romanzi più fortunati, forse il migliore.
La notizia mi ha rattristato particolarmente, perché diversi anni fa ho avuto la fortuna di tradurre per Mondadori alcune sue opere di saggistica dedicati all'analisi di alcune unità di élite delle forze armate USA, come i reggimenti di cavalleria corazzata, le truppe paracadutiste o il personale imbarcato sulle portaerei. Da persona che quindi ben conosce il suo modo di scrivere, devo concedere che non era propriamente il massimo dell'eleganza stilistica e che in alcuni punti la sua passione esasperata per il dato tecnico rendeva piuttosto pesante la lettura. 

Marko Ramius. Vi voglio ricordare che se questo mito dei nostri tempi esiste lo dobbiamo solo a Tom Clancy. Serve altro?

Ma se ogni tanto si perdeva nei dettagli, in una cosa Clancy era inarrivabile: la descrizione dell'atmosfera dell'azione militare. Il vecchio Tom ti prendeva e ti catapultava nel bel mezzo di un quartier generale, di una sala comando, di un carro armato o di un incrociatore lanciamissili e ti lasciava lì, a scrutare nervosamente il tuo monitor per scorgere una qualche traccia del nemico, a sentire sulla tua pelle la tensione e la paura, a chiederti se saresti mai riuscito a tornare a casa.
Lessi Red Storm Rising quando ero ragazzo e la Guerra Fredda era ormai finita da un pezzo ma ancora adesso, dopo vent'anni, quelle sensazioni le sento nelle ossa. In un certo senso, sono entrate a far parte del mio modo di scrivere di cose militari, mi hanno spinto a chiedermi cosa prova un uomo che si trovi a dover uccidere per non essere ucciso. O, più semplicemente, di un uomo che cerchi solo di salvarsi la pelle mentre gente invisibile che non ha mai conosciuto gli lancia contro di tutto, dai semplici proiettili di un fucile automatico fino a missili intercontinentali del valore di svariati milioni di dollari.
Perché era così bravo? Semplice, Clancy era un paladino della regola del "mostrare, non raccontare", non limitandosi ad applicarla solo allo stile ma estendendola anche alla struttura stessa del racconto. Considerava a tal punto importanti l'azione e il momento presente della descrizione da rendere tutto il resto della narrazione funzionale ad essi. L'intreccio politico diveniva dunque parte dell'azione, ne delimitava i confini e la natura, forniva le giustificazioni ai protagonisti. Ma lì si fermava perché - ed è vero - ad un soldato non gliene importa un accidenti di politica, ideologia o religione. Un soldato spera che il proprio fucile non si inceppi, che da dietro quella nuvola non sbuchino due caccia nemici non individuati, che oltre l'orizzonte e sotto la superficie del mare non ci siano navi con centinaia di uomini che vogliono mandarlo a fondo con i pesci.
Clancy aveva capito - e proprio quando si manteneva fedele a tale convinzione riusciva a scrivere i suoi pezzi migliori - che il lettore non riesce ad immedesimarsi davvero nei generali, ma nella paura di chi combatte davvero. Così, quella paura - semplice e terribile al tempo stesso - diventa il tramite emotivo su cui si regge la lettura e che fa scaturire l'interesse, l'aggancio che ti impedisce di mollare il libro perché devi finire a tutti i costi quell'ultimo capitolo. E non puoi fare altrimenti, perché grazie a questo transfert psicologico, cominci a pensare che il destino dei personaggi sia indissolubilmente intrecciato al tuo.
Un'ultima parola, dedicata a coloro che affibbiano a Clancy l'ingombrante e un po' ipocrita di "cultura popolare". Leggete (non siete troppo snob) l'arcinoto L'eleganza del riccio di Barbery e soprattutto il suo giudizio sul film tratto proprio dal romanzo di Clancy.
Chi vuol capire l'arte del racconto non ha che da vederlo. Mi domando perché l'università si ostini ad insegnare i principi narrativi, a colpi di Propp, Greimas e altre torture simili, invece di investire in una sala di proiezione. Premesse, intrigo, attanti, peripezie, quete, eroe e altri adiuvanti: molto meglio uno Sean Connery in uniforme da sommergibilista russo e qualche portaerei ben piazzata. 
Perché sì, ci sono momenti in cui il posizionamento di una portaerei è altrettanto se non anche più importante di dieci pagine di inutili introspezioni psicologiche di tizi che si pongono domande sul senso della vita nel bel mezzo di una battaglia. Tolstoj e il suo principe Volkonskij sarebbero stati certamente d'accordo. 

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