venerdì 11 ottobre 2013

Del Nobel, dei giudici di San Pietroburgo, delle letture sull'autobus e dello sciroppo d'acero

Alice Munro ha vinto il Nobel 2013 per la letteratura. A un giorno di distanza dall'evento ormai questa cosa dovrebbero saperla anche i sassi. Molto più difficile per buona parte del pubblico sapere cosa accidenti abbia scritto questa signora canadese, che pure non è esattamente l'ultima arrivata se ha battuto la concorrenza di nomi come quello di Philip Roth.
Lasciamo però un attimo da parte le considerazioni sui gusti e le conoscenze del pubblico letterario italiano, perché si tratta a dir poco di un campo minato. La letteratura moderna è una foresta in cui non è facile orientarsi, dove anche la migliore delle volontà rischia di rimanere sommersa da un'ondata di proposte che - spesso - non soddisfano le aspettative e fanno solo perdere tempo (oltre alla voglia di sperimentare autori o generi nuovi). Io stesso, lo devo confessare, prima di stamattina della Munro non avevo letto proprio un bel null. Certo, l'avevo messa in "tempi non sospetti" nella mia lista di lettura di aNobii pur se non nei primi posti... ma questo significa che senza il Nobel l'avrei presa in mano probabilmente intorno al 2020.
Non voglio poi nemmeno accennare alla questione dell'attendibilità di un tale premio (sì, io sono uno di quelli che ritiene che Ungaretti se lo meritava tutto, mentre Dario Fo... ecco... passiamo oltre, dai...). Forse questa scarsa fiducia nei riconoscimenti letterari è solo una mia fissazione. ma il fatto è che l'esistenza di strategie e vincoli editoriali nell'assegnazione di determinati premi è cosa ben nota, e non solo agli addetti ai lavori. Per i premi di un tale prestigio come il Nobel, poi, il numero delle variabili esterne ad un sereno giudizio artistico cresce in maniera esponenziale: entrano in ballo antiche ripicche tra istituti di cultura, calcoli pluriennali per favorire questo o quell'autore, in alcuni casi perfino considerazioni di carattere politico... e così finisce che ti chiedi se il premio dato allo sconosciutissimo scrittore di uno sconosciutissimo Paese-del-Terzo-Mondo-a-caso sia stato assegnato per il suo effettivo valore, perché faceva figo e alternativo premiarlo un po' come succede in certe mostre del cinema, oppure se più banalmente lo hanno dato a lui per non scontentare nessun altro.

Quando penso al Nobel mi viene in mente quell'immortale scambio nel Cyrano de Bergerac, all'inizio, nel teatro:
(IL GIOVINETTO, al padre.) Non si vede l'Accademia?
(IL BORGHESE) Ma c'è più d'un suo membro, sì. Ecco Boudu, Arbaud, Bourzeys, Colomby, c'è Cureau della Camera, con Porchères, Boissat, e Bourdon... Tutti nomi di cui non un morrà!... 
 
Dissertare di tutto ciò sarebbe ancor più stucchevole di quanto non sembri già solo a citarlo.
Quello che mi importa è stata la prima frase scritta dalla Munro in reazione alla notizia (quando sono finalmente riusciti a raggiungerla...), il che di tutta la faccenda rappresenta forse l'effetto più interessante e più di lungo termine per il mondo letterario:
"I would really hope this would make people see the short story as an important art, not just something you played around with until you got a novel."
Il che, tradotto in parole semplici, suona più o meno come: spererei che tutti la piantassero di considerare il racconto come un simpatico diversivo con cui ci si balocca mentre si lavora più seriamente ad un romanzo.
Ecco, il racconto. Che non è una robetta, un giocattolo carino per l'appunto, ma una forma narrativa a sé stante, così potente da configurarsi quasi come un genere a parte (il che è esattamente ciò che è successo in ambito fantascientifico "alto"). E se la Munro nel racconto ci si è specializzata, altri prima di lei nei modi più diversi possibile e con gli stili più diversi possibile e con i contenuti più diversi possibile hanno sfruttato a pieno quelle che sono i veri punti di forza della "storia breve". Che per paradosso coincidono con i suoi stessi limiti: necessità di una sintesi estrema, brevità dello scritto, obbligo di tenere alto il ritmo, iperdettaglio dei più piccoli particolari.
Insomma, tutto in un racconto è "più". Più veloce, più significativo, più esasperato. Lo deve essere, altrimenti l'effetto si perde e il lettore scopre il grande inganno che è alla base di tutto il gioco: ossia che la storia di un racconto deve essere al tempo stesso semplice e anche solida. Non si può barare, o la storia tiene oppure no, e il lettore lo scopre subito perché non puoi infinocchiarlo con una ventina di pagine spese per descrivere la fioritura dei noccioli o la rugiada che si forma sulle foglie d'erba al mattino. I personaggi devono muoversi, agire, parlare, vivere. Gli eventi devono accadere, formando una vicenda coerente e coesa.

Un orologio svizzero. Una delle analogie più usate (e abusate) per descrivere cosa deve essere un racconto. In confronto un romanzo è una roba tipo il Big Ben. Che devi essere preciso lo stesso, eh, ma qualche margine di tolleranza in più ce l'hai...
Certo, a questo punto uno potrebbe anche innamorarsi del racconto. Considerarlo a prescindere migliore, magari inventarsi la panzana che si tratta di una forma di narrazione più veloce, più essenziale, più smart, più in linea con la società di oggi (yuck!). Sovrane stupidaggini, perché il racconto non ha vantaggi intrinsechi se non il fatto che è più adatto ai ritmi di lettura odierni, fatti di quelle mezzorette che uno si ritaglia sull'autobus mentre va al lavoro o subito prima di crollare addormentato se non vuole rimbambirsi davanti alla televisione.
Tutto il contrario. Tanto per dirne una, il racconto, per la sua brevità, corre sempre il rischio di una progressiva sclerotizzazione narrativa in schemi prefissati: introduzione, eventi, complicazione, sorpresa finale. Ma di nuovo, dipende tutto da come lo strumento "racconto" viene utilizzato e ci possiamo trovare di fronte ad un Tolstoj che gioca con tutto ciò e ci regala con il suo magnifico Ivan Ilic un racconto in cui la sorpresa ad effetto sta all'inizio (spoiler: il giudice di San Pietroburgo muore... tipo a pagina due) o altri che la sorpresa proprio non ce la mettono e ti inchiodano al libro con ciò che succede durante un racconto che si configura come una progressiva discesa emotiva (ah, Buzzati e Bradbury, grandi volponi...).

Zio Ray. Bradbury, intendo. Volete sapere come si scrive un racconto? Leggete le sue raccolte. Vi piace la fantascienza? Se non le avete lette state mentendo sui vostri gusti solo per far colpo su qualcuno. Non vi importa un accidenti di come si scrive un racconto e la fantascienza vi fa venire l'orticaria? Leggetele lo stesso, che vi farà solo che bene.

Dunque, il racconto è bello? Può esserlo.
Il racconto è difficile da scrivere? Eh, certo.
Il racconto vende? Forse dopo questo Nobel lo farà di più e meno autori si vedranno rispondere dall'editore di fronte alla proposta di una loro raccolta di racconti: "Abbia pazienza, dottor Ammaniti, il momento è delicato..." (che poi è diventato il titolo di una raccolta STREPITOSA che vi consiglio senza alcuna esitazione).
Il racconto è meglio del romanzo? Alle volte, ma è più facile che faccia cilecca e devi essere davvero bravo per farlo funzionare.
Nei prossimi giorni scoprirò se la Munro è così brava e se questo Nobel se lo è meritato davvero.

PS: Che poi, per una cosa il Canada si meriterebbe il Nobel a prescindere: lo sciroppo d'acero. Sì, forse lo avrete provato sui French toasts o sui pancakes. Ma aspettate di assaggiarlo sul parmigiano e su altri formaggi duri e poi mi saprete dire...

giovedì 3 ottobre 2013

Tom Clancy

Ieri è morto Tom Clancy. E lo ha fatto, con singolare ironia del destino, all'inizio di quel mese di Ottobre legato ad uno dei suoi romanzi più fortunati, forse il migliore.
La notizia mi ha rattristato particolarmente, perché diversi anni fa ho avuto la fortuna di tradurre per Mondadori alcune sue opere di saggistica dedicati all'analisi di alcune unità di élite delle forze armate USA, come i reggimenti di cavalleria corazzata, le truppe paracadutiste o il personale imbarcato sulle portaerei. Da persona che quindi ben conosce il suo modo di scrivere, devo concedere che non era propriamente il massimo dell'eleganza stilistica e che in alcuni punti la sua passione esasperata per il dato tecnico rendeva piuttosto pesante la lettura. 

Marko Ramius. Vi voglio ricordare che se questo mito dei nostri tempi esiste lo dobbiamo solo a Tom Clancy. Serve altro?

Ma se ogni tanto si perdeva nei dettagli, in una cosa Clancy era inarrivabile: la descrizione dell'atmosfera dell'azione militare. Il vecchio Tom ti prendeva e ti catapultava nel bel mezzo di un quartier generale, di una sala comando, di un carro armato o di un incrociatore lanciamissili e ti lasciava lì, a scrutare nervosamente il tuo monitor per scorgere una qualche traccia del nemico, a sentire sulla tua pelle la tensione e la paura, a chiederti se saresti mai riuscito a tornare a casa.
Lessi Red Storm Rising quando ero ragazzo e la Guerra Fredda era ormai finita da un pezzo ma ancora adesso, dopo vent'anni, quelle sensazioni le sento nelle ossa. In un certo senso, sono entrate a far parte del mio modo di scrivere di cose militari, mi hanno spinto a chiedermi cosa prova un uomo che si trovi a dover uccidere per non essere ucciso. O, più semplicemente, di un uomo che cerchi solo di salvarsi la pelle mentre gente invisibile che non ha mai conosciuto gli lancia contro di tutto, dai semplici proiettili di un fucile automatico fino a missili intercontinentali del valore di svariati milioni di dollari.
Perché era così bravo? Semplice, Clancy era un paladino della regola del "mostrare, non raccontare", non limitandosi ad applicarla solo allo stile ma estendendola anche alla struttura stessa del racconto. Considerava a tal punto importanti l'azione e il momento presente della descrizione da rendere tutto il resto della narrazione funzionale ad essi. L'intreccio politico diveniva dunque parte dell'azione, ne delimitava i confini e la natura, forniva le giustificazioni ai protagonisti. Ma lì si fermava perché - ed è vero - ad un soldato non gliene importa un accidenti di politica, ideologia o religione. Un soldato spera che il proprio fucile non si inceppi, che da dietro quella nuvola non sbuchino due caccia nemici non individuati, che oltre l'orizzonte e sotto la superficie del mare non ci siano navi con centinaia di uomini che vogliono mandarlo a fondo con i pesci.
Clancy aveva capito - e proprio quando si manteneva fedele a tale convinzione riusciva a scrivere i suoi pezzi migliori - che il lettore non riesce ad immedesimarsi davvero nei generali, ma nella paura di chi combatte davvero. Così, quella paura - semplice e terribile al tempo stesso - diventa il tramite emotivo su cui si regge la lettura e che fa scaturire l'interesse, l'aggancio che ti impedisce di mollare il libro perché devi finire a tutti i costi quell'ultimo capitolo. E non puoi fare altrimenti, perché grazie a questo transfert psicologico, cominci a pensare che il destino dei personaggi sia indissolubilmente intrecciato al tuo.
Un'ultima parola, dedicata a coloro che affibbiano a Clancy l'ingombrante e un po' ipocrita di "cultura popolare". Leggete (non siete troppo snob) l'arcinoto L'eleganza del riccio di Barbery e soprattutto il suo giudizio sul film tratto proprio dal romanzo di Clancy.
Chi vuol capire l'arte del racconto non ha che da vederlo. Mi domando perché l'università si ostini ad insegnare i principi narrativi, a colpi di Propp, Greimas e altre torture simili, invece di investire in una sala di proiezione. Premesse, intrigo, attanti, peripezie, quete, eroe e altri adiuvanti: molto meglio uno Sean Connery in uniforme da sommergibilista russo e qualche portaerei ben piazzata. 
Perché sì, ci sono momenti in cui il posizionamento di una portaerei è altrettanto se non anche più importante di dieci pagine di inutili introspezioni psicologiche di tizi che si pongono domande sul senso della vita nel bel mezzo di una battaglia. Tolstoj e il suo principe Volkonskij sarebbero stati certamente d'accordo. 

martedì 1 ottobre 2013

Nuovo racconto: L'occhio del fotografo

E rieccomi! 
C'è voluto un po', lo ammetto, ma sono tornato e in grande stile, ossia con un nuovo racconto che trovate qui.
Cosa sto facendo in questi giorni? Vado avanti, come sempre. Fotografo e pubblico su Instagram, come e quando mi va. Scrivo, e neanche poco... ma mai abbastanza!

PS: E spero di poter tornare ad occuparmi con maggiore regolarità di questo blog... e questa è una mezza promessa!