martedì 30 luglio 2013

William Klein

Avete presente i maestri? Ma sì, quelle persone - anche un po' odiose - di cui sentite sempre parlare, di cui ammirate le opere alle mostre, di cui trovate i documentari su YouTube. Ecco, William Klein è uno di quelli.
Solo che è un maestro un po' strano. Non per quello che è, intendiamoci... Il suo famoso caratteraccio, la sua vita sregolata e avventurosa, la sua voglia di rompere tutti gli schemi fanno parte dello stereotipo classico dell'artista geniale e un po' matto. Fin qui nulla di nuovo.
Il suo essere strano risiede invece nella sua continua e insolubile contraddizione interna. Voglio dire, si tratta chiaramente di un uomo che di vite ne ha vissute troppe per non farci sospettare che in realtà nemmeno lui ha mai capito cosa voglia veramente fare della sua esistenza. Fotografo di moda, poi fotografo di strada, poi regista, poi documentarista... E il caro vecchietto non è stato inquieto solo nelle sue occupazioni, ma anche in quello che ha detto, fotografato e filmato.
E' un newyorkese ebreo come solo un ebreo può essere newyorkese, eppure vive a Parigi e New York la tollera soltanto (quanto lo capisco...). E' andato appresso a gente un filino problematica come Muhammad Alì, Malcom X e il leader delle Pantere Nere. Quando ha fatto fotografia di moda per Vogue le modelle lo temevano come la peste, perché questo pazzo le fotografava in mezzo alla strada, appese ai tram, che correvano sulle strisce pedonali rischiando di essere investite, penzoloni dai cornicioni delle case... Ah, e se ve lo state chiedendo, ogni volta che vedete una foto su di una rivista fashion non in studio ma ambientata in una zona urbana, sappiate che è stato proprio lui a inventare questo modo di scattare.
Quando ha fatto street photography - diciamola meglio, quando ha contribuito a definire cosa fosse la street photography - è andato come forza espressiva sicuramente al di là degli artifici carini carini di Doisneau e perfino più oltre rispetto alla spontanea perfezione molto ragionata di Cartier-Bresson. I suoi scatti sono un pugno in un occhio, quasi sgradevoli, aggressivi. Come il suo film Who are you, Polly Maggoo?, feroce satira del mondo della moda che al confronto Il Diavolo veste Prada è un film delal Disney (e infatti gli costò il posto a Vogue). Poi ce lo ritroviamo a filmare le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, per l'appunto appresso alle Pantere Nere nel loro esilio algerino, a filmare Muhammad Alì che tira di boxe con i Beatles (non scherzo, è successo davvero)... Insomma, cose normalissime, no?
Diciamocela tutta, era un figo. Ma è anche sempre e comunque rimasto un americano nel midollo, anche quando era molto difficile essere un americano. Uno di quelli veri, quegli ex inglesi-tedeschi-francesi che si liberano dal perbenismo tutto europeo, sguazzano in quella dannata ironia ebraica che ti fa ridere anche mentre stai salendo le scale della ghigliottina e si mettono a romperti le scatole, perché pensano di sapere tutto loro e di aver capito cosa è giusto e cosa è sbagliato. Alle volte prendono delle cantonate colossali ma alle volte, e questo è il loro aspetto più irritante, hanno ragione loro. Anche e soprattutto quando se la prendono con gli altri americani, con quella New York del big sell, la città del dollaro in cui tutti vengono per fare soldi e poi buttarli via il più rapidamente possibile, in cui il melting pot si rivela essere una scempiaggine colossale e solo una normale solidarietà umana può avere un qualche significato, in cui lo chic - sia esso moda o ristorantini fighi o viaggi cool - non è altro che una bella trappola colorata per le anime distratte.
Bene, Klein queste cose non te le dice, non te le argomenta, non te le espone. Te le urla in faccia e poi se ne va. Così com'era arrivato. Poi, quello che ci fai tu con la verità sono fatti tuoi.
Per chi volesse saperne di più, ecco il documentario realizzato dalla BBC. Godetevelo.

lunedì 29 luglio 2013

Vecchie, profonde radici

Non è vero che tutta la TV fa schifo. Qua e là riesci anche a trovare dei bei programmi. Qua e là riesci anche a trovare delle belle reti.
Certo, è roba per pochi. Roba che ti chiedi sempre per quanto rimarrà in onda, nonostante la moltiplicazione dei canali con il digitale terrestre. Eppure c'è, e fintanto che c'è, te la guardi e ringrazi. Quindi si può saltellare con fiducia su canali come Rai 4, Rai 5, Sky Arte o La Effe. Perché male che ti vada trovi una cosa che hai già visto o al massimo un po' banale, ma mai stupida.
Bene che ti vada...
Sabato scorso. Pomeriggio. Mi ritrovo davanti il più classico documentario on the road: America tra le righe - California dreaming. Con un giornalista francese, Busnel, che se ne va a spasso per gli USA a scovare artisti e scrittori e a parlare, per l'appunto di quel gigante così conosciuto e al tempo stesso così sconosciuto che sono gli States.
Grande, bello, stimolante, figo. Poi arriva uno scrittore indiano (nel senso di pellerossa, nel senso di nativo, nel senso di "quelli con le piume, l'arco e le frecce"), Sherman Alexie. Non ho mai letto nulla scritto di lui, lo confesso, e (nonostante apprezzi la fine ironia di chiamarlo con il nome di uno dei generali americani con più indiani sulla coscienza) non so se mai leggerò qualcosa scritto da lui. Ma ad un certo punto dell'intervista, se ne esce con un concetto notevole.
Il succo è: "I miei cari fratelli ce l'hanno con me, perché sono uno scrittore famoso e quindi un personaggio pubblico che non segue più le ancestrali tradizioni delle tribù. Me ne vado in giro come un uomo bianco, parlo delle città degli uomini bianchi, sono molto meno indiano di loro. A me queste critiche fanno male, le sento su di me. Tuttavia, un giorno ho avuto un'illuminazione. Mentre ci sono delle tribù che si lasciano distruggere culturalmente o che si mettono a gestire casinò nei territori, io giro il mondo raccontando storie. Come i nostri antenati, con la tradizione orale e tutto il resto. Ora, non è che sono io col mio lavoro ad essere rimasto più vicino alle nostre radici? Non è che sono io a tenere vivo un pezzo del nostro modo di vivere, mentre sono loro a tradirlo?"
Roba forte. Perché ti fa capire due cose: primo, che è dannatamente difficile liberarsi delle proprie radici, ti tornano fuori nelle maniere più strane; secondo, che ci sono mille e mille modi di vivere ciò che si è realmente, molti di più di quelli che la nostra arrogante intelligenza ci permette di scorgere.
Non è che questo frenetico ricercare noi stessi a cui ci richiamano libri, film, programmi televisivi, canzoni, poesie, scritte sui muri, citazioni strambe che ti compaiono su Facebook e quant'altro, non è che questa continua pulsione all'andare oltre ci impone la distruzione di ciò che siamo davvero, e peggio ancora di quello che potremmo essere seguendo le orme di chi ci ha preceduto?
Perché si può preservare la propria tradizione personale, familiare, culturale, nazionale anche facendo qualcosa di totalmente diverso e "moderno", ma si può anche perdere sé stessi se ci si lancia a capofitto nell'opera di distruzione del mondo da cui proveniamo o in una sua stantia conservazione.
E se dobbiamo condannare e rinnegare le tentazioni della nostalgia, non è forse salutare andare alla ricerca di una nostalgia attiva, ossia di un modo di interpretare le nostre esistenze senza dimenticare quale sia il mondo da cui veniamo? Perché arriva sempre quel momento in cui scopri che il gattopardiano "cambiare tutto perché nulla cambi", forse non era una cosa poi tanto brutta.

 

sabato 20 luglio 2013

Nuovo racconto: Colui che porta la luce

Sono vivo, eh! E ho anche scritto. Mica poco, un bel po' e anche di cose che... beh, poi vi dirò! Nel frattempo, ecco un nuovo racconto ambientato nell'universo di Radiant, la mia creatura-progetto fantascientifica che penso stia venendo abbastanza bene.
In questa nuova storia fornirò finalmente qualche notizia sul background generale, proiettandovi nella mente di un soldato alla vigilia di una delle battaglie più importanti dell'intero conflitto. Ma per lui, per quel che lo riguarda, non è altro che uno dei momenti più importanti della propria esistenza, il punto di arrivo a cui lo hanno condotto le importanti e dolorose scelte della propria vita.
Buona lettura!

venerdì 5 luglio 2013

Il lato oscuro del Laghetto


Io vivo a Roma. Sono nato dalle parti di Roma Nord (non è colpa mia). Però già a cinque anni ci siamo trasferiti nei pressi dell'EUR e da allora non l'ho più lasciato.
Per chi non è di Roma tutto questo può non significare molto., ma chi conosce bene la capitale sa quanto essa più che una singola metropoli sia un insieme di piccole città. Piccole città molto diverse tra di loro e che spesso, semplicemente, non si possono vedere. Troppe differenze di ambiente, classe sociale, urbanistica, abitudini di zona... eppure tutti i quartieri di Roma hanno una cosa in comune: detestano l'EUR.
Ora, lasciamo perdere le polemiche sulle sue origini. Fascismo o meno, i vialoni bianchi dell'EUR sono un esempio di architettura cittadina che in molti nel mondo hanno ammirato, studiato e banalmente copiato. E a me non sembra affatto triste o desolante come in molti lo descrivono, ma aperto e solare e pieno di verde e di aria. Personalmente vengo ancora preso da una leggera sensazione di claustrofobia non appena mi avventuro al di là della Piramide o quando lascio la Cristoforo Colombo passando sotto le mura: non c'è niente da fare, è proprio un'altra città.
Ora, per tutti coloro che abitano all'EUR esiste un luogo in particolare che conserva memorie preziose di giornate diverse dal normale, giornate romantiche. Il Laghetto.
Questa specie di enorme vasca da bagno situata davanti al palazzone dell'ENI è uno dei simboli del quartiere ed ha fatto da ambientazione per pomeriggi e nottate all'insegna dei sentimenti. Ben pochi sono gli abitanti dell'EUR che non ci si sono mai recati almeno una volta con la propria ragazza, fidanzata e moglie.
Eppure, oltre a custodire una preziosa famiglia di ciliegi giapponesi che ad ogni primavera regalano una rigogliosa fioritura, il Laghetto nasconde anche dei segreti. Come il fatto di essere suddiviso in due zone specifiche sul lato che dà su Viale America.
Se infatti nell'area immediatamente limitrofa alla metro di EUR Palasport (e chiamatelo come volete, ma per tutti noi dell'EUR quello è e rimane il Palazzetto dello Sport) troviamo la zona per le coppie regolari, spesso accompagnate da bambini e parentame vario, poco più in giù, verso la riva corta del lago che porta sull'altra sponda, si trova un'area un po' più appartata, con meno panchine e con maggiori garanzie di riservatezza.
Il lato oscuro del Laghetto. L'area dedicata alle coppie "non ufficiali".
In effetti, non so quando è cominciato tutto questo, ma nel corso degli anni si è formato una sorta di accordo implicito che spinge coloro che si amano non proprio come tutti a prediligere quel punto lì. Coppie di mariti con seconde mogli (le riconosci per la quasi immancabile differenza di età tra lui e lei), colleghi di lavoro chiaramente dediti a parlare di tutto tranne che del lavoro medesimo con fedi di colore diverso alle dita (che poi vedersi al Laghetto non è proprio il massimo della furbizia... all'EUR ci si conosce quasi tutti e le voci fanno presto a correre...), uomini e donne che arrivano singolarmente dando delle sospettosissime occhiate in giro finché non incontrano "casualmente" proprio chi speravano di trovare...
E non è che siano tutti presi da chissà quale vortice di passioni. Anzi, molti rimangono come schiacciati dal peso di una relazione clandestina o comunque "nata strana". E allora vedi uomini che si ritrovano alle prese con le stesse incomunicabilità che avevano con le precedenti consorti, questa volta aggravate dal fatto che le hanno con quella che probabilmente era la loro ex amante che un tempo li faceva sentire così "vivi", o anche gente dedita a vere e proprie litigate, rese ancor più dolorose dal fatto che si tratta di una seconda occasione che sta sfuggendo via dalle mani proprio come fu per la prima. Oppure i casi più pietosi, cioè coloro che fingono disperatamente e soprattutto con se stessi di essere di nuovo felici, perché hanno smontato il loro mondo per vivere quel momento... e poi si accorgono che forse non ne valeva nemmeno così tanto la pena.
Però ci sono le eccezioni.
Le persone felici, ma felici davvero. Perché nessun amore può essere così bello come quello che ha superato mille ostacoli, che ha ignorato anche i vincoli della cultura e della mentalità comuni, che ha travolto ogni convenzione. E tu, che cominci a far caso più alle persone che alle cose perché magari hai la vaga intenzione di diventare uno scrittore e quindi sai che prima di tutto devi imparare ad "ascoltare" ciò che ti vedi intorno, sei come sommerso da tutti questi stimoli. Riconosci i segni, le sottigliezze negli atteggiamenti, le posizioni sulle panchine, la natura degli abbracci, gli scambi affettuosi...

- Oh, amò! Ma guarda che bello... finalmente...
- Eccerto... Daje!
- Sì, sì, amò... guarda, pure coi regazzini che giocheno qui davanti a noi!
- E' vero. Ma quanto sei zenzibbile tu... Così, alla luce der sole...

Scena reale. Giuro, Verdone non c'entra. Uomo e donna. Capello lungo impomatato e improponibile catenone al collo con giacchetta bianca stile John Travolta de Torpigna lui, minigonna e zepponi lei (il resto della "signora" non lo ricordo... ho un buco nella memoria, vaghe immagini di capelli nerissimi e gioiellame esagerato... una parte dei miei neuroni deve essersi suicidata alla vista di questo spettacolo). Lui chiaramente uscito da poco da una separazione o divorzio o chessò io, lei tutta trionfante e acchittata per la loro prima uscita... alla luce der sole...
Ecco. Pure questo è amore.
Daje.